Lo scorso 23 giugno 2016 gli elettori britannici hanno scelto di abbandonare l’Unione Europea: il 52 per cento di coloro che hanno preso parte alla tornata referendaria si è infatti espresso in favore dell’uscita, conferendo un esito piuttosto sorprendente e, di conseguenza, provocando anche una crisi di governo e scatenando un forte deprezzamento della sterlina.
Il nuovo primo ministro May, che ha preso il posto dell’ex primo ministro Cameron, è fautrice di una strategia cauta nella gestione del processo di uscita, e le sue prime posizioni hanno confermato quanto valutato dagli osservatori. A conferma di ciò, si ricorda come il nuovo primo ministro abbia preannunciato di non voler formalizzare la richiesta di avvio delle negoziazioni per uscire dall’UE prima di fine 2016.
Quindi, considerando che solamente dal momento della formalizzazione della richiesta di “exit” scatteranno di 24 mesi utili per il compimento delle negoziazioni, quanto sopra significa che l’uscita non potrà realizzarsi prima del 2019, e potrebbe anche essere concordato un periodo transitorio che ne rinvierebbe ulteriormente gli effetti più concreti.
Alla luce di ciò, si può anche accennare come, per quanto siano in buona parte scontate le conseguenze negative di breve termine sull’economia britannica, è assolutamente presto per poterne valutare l’entità sul medio termine. I “danni” potrebbero infatti essere mitigati da una politica monetaria più accomodante, dal deprezzamento della sterlina e, infine, da un probabile allentamento della politica fiscale. Le ripercussioni esterne attraverso il canale finanziario sono state molto contenute, mentre è prematuro giudicare se il voto possa incidere negativamente e in modo persistente sul clima di fiducia fuori dal Regno Unito, sottolinea un aggiornamento di Banca Intesa.