Le quotazioni petrolifere confermano il loro andamento cauto di inizio anno, con una tiepida flessione alla luce degli ultimi dati che mostrano un incremento dell’export di greggio da parte dell’Iran: un episodio, da parte di uno dei membri partecipanti all’accordo di riduzione dei livelli di produzione del greggio, che rischia di minare lo sforzo di taglio dell’output concordato tra produttori OPEC e non-OPEC.
In aggiunta a quanto sopra, si registra l’incremento, per la decima settimana consecutiva, dell’attività di trivellazione negli Stati Uniti, come riportato dalla statistica Baker-Hughes del weekend. Ad ogni modo, questo evento – contrariamente a quanto avvenuto nel mercato iraniano – non sembra sorprendere più di tanto il mercato, con gli analisti che si attendevano in misura prevedibile che un ritorno stabile dei prezzi sopra i 50 dollari avrebbe spinto sia la ripresa di progetti esplorativi che la redditività dei siti di shail-oil (d’altronde, come noto, prezzi del greggio al di sotto di tale soglia renderebbero scarsamente redditizi gli investimenti in tale comparto).
Ad ogni modo, anche in questo caso sullo sfondo restano pertanto i dubbi degli addetti ai lavori circa il rispetto del piano di tagli alla produzione sottoscritto a fine 2016 ed i cui primi tagli dovrebbero iniziare proprio in queste settimane. Non mancano comunque le notizie lievemente positive: in particolar modo, fanno ben sperare le indiscrezioni secondo cui l’Arabia Saudita, tramite Aramco (la società petrolifera di Stato), ha avviato colloqui con i clienti per una riduzione fino al 7 per cento delle vendite di greggio a febbraio.
Vedremo nei prossimi giorni cosa avverrà in tal senso: un passo indietro così preliminare sugli accordi della fine dello scorso anno avrebbe effetti enormemente deleteri sul comparto delle materie prime.